STATUS DI RIFUGIATO


A norma dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con legge n. 722 del 1954, è rifugiato colui che, avendo un fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un certo gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal suo Paese e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese.
Per la definizione di rifugiato è rilevante anche l’art. 2 lett. e) del D. Lgs. 19.11.2007 n. 251, emesso in attuazione della direttiva 2004/83/CE, i cui successivi artt. 5 e 7 specificano che, ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale, gli atti di persecuzione paventati devono essere sufficientemente gravi, per natura e frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, potendo assumere tra le altre, la forma di atti di violenza fisica o psichica, di provvedimenti legislativi, amministrativi e giudiziari discriminatori.
Responsabili delle persecuzioni e dei danni gravi, poi, devono essere lo Stato ovvero partiti ed organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, o anche soggetti non statuali se lo Stato o le organizzazioni internazionali non vogliono o non possono fornire protezione.
In altri termini, come è stato precisato in dottrina ed in giurisprudenza, elemento cruciale nella definizione di rifugiato è la persecuzione, che consiste in un attentato grave alla libertà o all’integrità fisica del richiedente, da quest’ultimo temuto sulla base di circostanze oggettive esterne fondate su uno dei predetti motivi, di fronte alle quali egli non sia in grado di ricevere adeguata tutela dal governo del proprio Paese, con grave rischio in caso di rimpatrio.
Deve, insomma, trattarsi, di persecuzione personale e diretta, di modo che, in ultima analisi, il richiedente abbia il fondato timore di essere perseguitato per la propria specifica situazione personale.

L’art. 5 del d.lgs. n. 251/2007 (che ha recepito letteralmente l’art. 6 della direttiva “qualifiche”), dà una definizione uniforme di responsabile della persecuzione e di danno grave, prevedendo che esso possa essere:
a) lo Stato;
b) partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio;
c) soggetti non statuali, se i responsabili di cui alle lettere a) e b) comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione ai sensi dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi.
Perciò ai fini dell’accertamento della sussistenza dello status di rifugiato sono rilevanti i comportamenti che provengono direttamente dallo Stato di origine del richiedente, o siano comunque ad esso imputabili perché commessi da soggetti investiti dell’esercizio di prerogative proprie di un’autorità pubblica.
Si parla in questo caso di persecutor statale, ed il timore del richiedente è necessariamente fondato perché lo stesso non ha de facto la possibilità di richiedere protezione al Paese di origine.
Nell’ipotesi di comportamenti di agenti privati o gruppi sociali, ovvero di persecutor non statale, è sufficiente che lo Stato di origine non voglia o non sia in grado di fornire adeguata protezione al richiedente contro quei comportamenti.
Lo Stato “non vuole” fornire adeguata protezione allorché tolleri o coadiuvi l’azione o l’omissione dell’agente responsabile della persecuzione e del grave danno.
“Non può”, invece, quando lo Stato è incapace o impossibilitato a garantire protezione, tenendo in considerazione le misure di protezione predisposte contro gli atti persecutori e le possibilità che il richiedente ha di accedervi. In tal caso occorre dunque, che esista un sistema inadeguato di protezione nazionale ed un meccanismo inefficace nell’individuare, perseguire penalmente e sanzionare i comportamenti che costituiscono atti di persecuzione.
La persecuzione può provenire sia da atti provenienti sia da un’autorità statale riconosciuta, sia da qualsiasi organizzazione che eserciti di fatto il potere sulla zona in cui vive la persona, anche se ciò avvenga in regime di occupazione militare o durante un conflitto armato non internazionale. Infatti un partito, allorché eserciti il potere su un determinato territorio con la forza delle armi, o un’organizzazione internazionale chiamata a svolgere su un determinato territorio operazioni militari in virtù delle norme del diritto internazionale umanitario, hanno obblighi nei confronti della popolazione civile, obblighi internazionali di trattare in modo civile, cioè in particolare di non sottoporre a torture o trattamenti o pene inumani
o degradanti o di assicurare la protezione penale e le garanzie della difesa (cfr. Convenzione IV sulla protezione dei civili in tempo di guerra, firmata a Ginevra il 12.8.1949, ratificata e resa esecutiva con legge 27 ottobre 1951, n. 1739; Protocollo aggiuntivo II sulla protezione delle vittime in conflitti armati non internazionali, adottato a Ginevra l’8 giugno 1977, ratificato e reso esecutivo con legge 11 dicembre 1985, n. 762).
Indipendentemente dalla natura statale o non statale del persecutor, infine, è del tutto irrilevante che sussista o meno un intento persecutorio nella condotta dell’autore della persecuzione.
La sussistenza della finalità persecutoria, infatti, non compare né nella definizione di rifugiato della Convenzione di Ginevra, né in quella letteralmente trasposta nella direttiva “qualifiche”. Tuttavia nei casi in cui sia rintracciabile anche una finalità persecutoria dell’agente, sicuramente potrà considerarsi un grave indizio del fondato timore del richiedente.
Il riconoscimento dello status di rifugiato, inoltre, può anche basarsi sul timore di essere perseguitati da agenti terzi, estranei all’organizzazione ufficiale dello Stato – come la comunità o la famiglia – o da segmenti anche non organizzati della popolazione civile di un Paese, quando i soggetti che offrono protezione non possono o non vogliono fornirla.

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